sabato, Novembre 23, 2024
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Empatia: quanto siamo in grado di metterci nei panni altrui?

Nell’ultimo decennio si è parlato molto di empatia, anzi è stata una delle parole più cercate sulla piattaforma Google degli ultimi tempi. La parola di origini greche, en (dentro) pathos (sofferenza, sentimento), fu coniata nell’era classica e stava ad indicare il rapporto che veniva ad instaurarsi fra l’attore tragico e il suo pubblico: infatti, nel corso della rappresentazione teatrale, il pubblico presente in sala rifletteva e si rifletteva, identificandosi, negli stati d’animo espressi nell’interpretazione di un personaggio. Il pubblico cioè viveva sentimenti propri e reali grazie all’interpretazione di un personaggio.

A partire dal Novecento, il termine indica il sentire “lo stato di coscienza altrui” invitando metaforicamente a “mettersi nei panni di un altro”. Resta il fatto che, nonostante le basi scientifiche, ossia la scoperta dei cosiddetti “neuroni specchio”, non è così automatico mettersi in altri panni diversi dai propri, poiché la comprensione empatica è molto più sottile di quella intellettuale, in quanto ha a che fare non solo con le parole ma con gli stati d’animo, per natura più fuggevoli.

Come c’era da aspettarsi, le donne risultano essere più empatiche degli uomini, più inclini ad immedesimarsi in situazioni non proprie. Forse un retaggio di una cultura antica, che vedeva la donna meno nell’ambito degli affari fuori la domus, e più addentrata in affari di sentimenti.

Empatia vuol dire allargare la propria esperienza, renderla capace di accogliere il dolore, la gioia altrui, mantenendo la distinzione tra me e l’altro /altra. Si tratta di rendersi conto che c’è un altro e c’è dell’altro oltre ai propri panni. L’empatia è alla base della “New Sincerity” un sentimento sempre più diffuso che rifiuta il cinismo.

Anche in ambito finanziario ha trovato la sua applicazione il concetto di empatia: Timothy Noonan, presidente del comitato strategico di consulenza del gruppo americano Russell Investments, ha spiegato qual è la sua idea di consulenza.

«Prima di tutto bisogna dedicare tempo, tanto tempo alla discussione con i clienti. È necessario conoscerli. Parlare con loro è l’unico modo per individuare il problema e trovare una possibile soluzione».

La relazione dunque prima di tutto. Chi è in grado di relazionarsi bene con un soggetto, che sia un fornitore, un cliente o un superiore, ha maggiori capacità di negoziazione, e quindi potere contrattuale. Infatti stabilisce rapporti e relazioni migliori e più di successo.

In secondo luogo è necessario far cambiare prospettiva al cliente: «C’è bisogno di verificare qual è il surplus di ricchezza al netto delle spese necessarie». Ma non basta. «Oltre all’empatia ci vuole metodo. Con la sola empatia non si raggiungono i risultati. Il metodo però non basta a creare la fiducia».

Anche in Italia sta prendendo piede questa nuova figura del consulente indipendente, anche se molto lentamente. È una figura che molti non conoscono, eppure si registrano cospicui trasferimenti di patrimoni. Le banche comunque hanno risposto evolvendosi: la creazione di un desk di advisory.

A cura di Giulia Amato

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